La latteria dell’Isola
Marisa la lattaia arrivò a Milano, da un paese dell’entroterra del Salento, in un gelido pomeriggio invernale del 1973. A quei tempi non era ancora lattaia ma una giovane fiera e orgogliosa, figlia di contadini.
La accompagnò suo cugino Giuseppe, con la Opel Kadett bianca. Poche cose al seguito, in una vecchia valigia di cuoio. Tra le braccia un fagotto con dentro il bambino, Pasquale.
Era stata la signora della famiglia per cui lavorava a servizio a trovarle quella possibilità. Una stanza in affitto dalla cugina di una sua comare, una pensionata che poteva guardarle il bambino mentre lei avrebbe lavorato nella latteria del quartiere la cui proprietaria, ormai avanti con gli anni, aveva bisogno di aiuto.
Il più lontano possibile dagli sguardi sbiechi dei paesani e dalle frasi di circostanza rivolte alla sua pancia e a lei che non aveva fornito spiegazioni, né chiesto niente a nessuno.
La zona dove si trasferì si trovava alla periferia nord della città, la chiamavano Isola proprio per la sua posizione decentrata e perché collegata al resto della città attraverso un ponte.
Il blu del mare, il verde degli ulivi e il rosso della terra in un attimo vennero rimpiazzati dai palazzi grigi, dall’asfalto e dal rumore dei clacson.
Ma Marisa si adattò senza troppe difficoltà. Quel quartiere era di fatto un paese, con la sua stazione ferroviaria, le botteghe alimentari e di artigiani, le case a ringhiera abitate da famiglie milanesi e da molti immigrati del sud, come lei. La domenica si ritrovavano sempre a casa dell’uno o dell’altro; chi portava le cicorie in padella, chi le melanzane alla parmigiana, chi le orecchiette spedite da qualche compare. Fu proprio in uno di quei pranzi a dodici portate che un paio d’anni dopo conobbe Armando, che divenne poi suo marito e fece da padre a Pasquale, oltre che ad Antonia, la figlia che ebbero insieme.
Alla latteria dell’Isola la Rosetta, un donnone milanese con la crocchia grigia e il grembiule bianco, l’aveva accolta dicendole: “Se ti dai da fare ti insegno il lavoro e quando mi ritiro ti lascio il negozio. Se pensi di scansare le fatiche ti rispedisco fra i trulli. Chì de canett de véder ne voeri minga”. Marisa era abituata a sgobbare, fin da bambina, e non si lasciò impressionare dall’atteggiamento ruvido della Rosetta. Il lavoro alla latteria le piacque subito. A servire gli altri ci era abituata, qui si aggiungeva il piacere di dare da mangiare alle persone. Preparare i panini con la mortadella per gli operai a mezzogiorno. Riempire gli scartocci di carta marrone con rotelle di liquerizia e coccodrilli gommosi che i bambini sceglievano dai grandi vasi di vetro prima di entrare a scuola. Affettare il prosciutto e pulire il gorgonzola dalla crosta per le madri di famiglia. E intanto scoprire un nuovo mondo e abitudini diverse, conoscere e farsi conoscere.
Trascorsero dieci anni, nacque sua figlia Antonia e la Rosetta mantenne la sua promessa: andò in pensione e le lasciò il negozio. Lei cambiò l’insegna: Marisa, la latteria dell’Isola e assunse una giovane compaesana, Nuccia, come aiutante. Il primo giorno le disse: “Vedi di impegnarti. Quai canne te vitru no ne oiu”
Passò un altro decennio, Marisa si era ormai integrata in quel paese nascosto dentro la città che nel tempo prese ad amare, quasi quanto il suo, anche se gli ulivi le mancavano ancora. Andava a gonfie vele e divenne uno dei punti di riferimento del quartiere. Lei entrò nel comitato dei negozianti della zona, sempre in prima fila per organizzare le luminarie natalizie o raccogliere qualche colletta.
Nei vent’anni successivi accaddero molte cose, stupende e terribili, come sempre succede. Suo figlio Pasquale vinse una borsa di studio e se ne andò a Londra dove si fermò poi a lavorare. Antonia ebbe una bambina con Gioacchino, il figlio del meccanico. Suo marito Armando morì; Marisa fece di tutto per curarlo ma la malattia vinse la sua gara contro la vita di Armando e gli sforzi della lattaia.
L’Isola cambiò molto, in modo prima sommesso e graduale per poi mutare pelle di botto. Arrivarono gli architetti a ristrutturare le vecchie case di ringhiera, rendendole attraenti e alla moda, come era già successo sui Navigli. Costruirono nell’intorno palazzi e grattacieli, infine anche uno con gli alberi piantati sulla facciata dentro ai muri, Bosco Verticale, che si guadagnò la copertina di una importante rivista straniera.
Vennero gli immobiliaristi e i prezzi degli appartamenti triplicarono. Diversi isolani non si lasciarono scappare l’occasione e vendettero per cedere il testimone a giovani single, artisti e radical chic, come li chiamava qualcuno. Sorsero supermercati, ristoranti di ogni etnia, pub e pasticcerie.
La prima bottega storica dell’Isola a chiudere fu Mario il macellaio. Poi venne il turno dell’ortolano, di una delle panetterie, dei due cartolai, e pian piano di quasi tutti gli altri.
Lei non si arrese. Rimase l’ultimo baluardo di un mondo che andava sfumando. Non si perse d’animo e si ingegnò. Prese a cucinare su ordinazione, a fare le consegne a domicilio e a vendere di tutto, anche la carne, il pane, le verdure e i detersivi. La licenza non l’aveva, ma a lei le scatole non le rompeva nessuno. Cominciò a occuparsi anche di alcune vecchie del quartiere, mentre portava la spesa non le costava nulla fare qualche puntura e commissione. Nel buco che era il suo negozio riuscì a infilare tre sgabelli per chi voleva fermarsi a chiacchierare e a bere il caffè.
Poi c’era Chiara, che abitava sopra alla latteria e le telefonava spesso verso le sette di sera. “Marisa, faccio tardi al lavoro e ho sei amici alle nove. Mi imbastisci la cena? Anche il vino, grazie. Poi me la metti al solito posto in cortile”. Ma lei spesso l’aspettava per l’ultima chiacchierata della giornata, era raro che chiudesse prima delle venti e trenta.
Per qualche anno funzionò così. Poi cominciò a scricchiolare. Dovette rinunciare a Nuccia. Perse sempre più clienti, perché si trasferirono altrove o la tradirono con il Carrefour di Via Porro Lambertenghi. I nuovi arrivati parevano preferire il mercato o Eataly, ad appena dieci minuti da lì. Si accontentò di guadagni più magri, in fondo non aveva grandi esigenze. Sopportò l’affronto del negozio spesso vuoto, quando per trent’anni c’era stata la coda sul marciapiede.
Resistette il più possibile, ancora e ancora, ma alla fine dovette cedere. Aveva appena sessant’anni e fosse stato per lei avrebbe continuato almeno altri dieci.
L’ultimo giorno si svegliò con un groppo in gola, la nausea e un senso di vuoto e vertigine. Cosa avrebbe fatto senza la sua latteria? Alla pensione mancavano ancora un po’ di anni, avrebbe dovuto farsi bastare i suoi risparmi. Come avrebbe riempito le giornate? Poteva fare la nonna, certo, ma non le sarebbe bastato.
Le avevano già chiesto una mano a Isola Pepe Verde, uno spazio abbandonato preso in gestione da una associazione di cittadini e trasformato in una piccola oasi verde ai piedi del cavalcavia Bussa. Anche loro stavano combattendo la loro battaglia: il rinnovo delle convenzioni con il Municipio era sempre più complesso, ogni anno il rischio di essere smantellati a favore di un nuovo parcheggio era sempre più forte. Soprattutto ora che a poche centinaia di metri avevano aperto la Biblioteca degli Alberi, uno spazio verde molto chic, ai piedi di Bosco Verticale. Sarebbe andata a aiutarli, certo. E poi?
Il suo negozio chiuso. Che vergogna. Non ci poteva pensare. Ma di cosa si trattava esattamente? Del fallimento di una attività? O di un quartiere, di un modo di vivere, di un’epoca soppiantata da un’altra?
Passò la giornata a pulire la latteria e a raccogliere le sue cose, per ultima la foto dell’Armando, formato trenta per trenta, che per tutti quegli anni le aveva tenuto compagnia vicino alla cassa. Solo a guardarlo le infondeva tutto il coraggio che le serviva. Abbassò la serranda e la chiuse per l’ultima volta. Il suo regno sarebbe passato in altre mani, l’ennesimo sushi bar. Lo aspettavano altre storie.
Con le spalle curve girò l’angolo di via Dal Verme. In piazzetta Archinto scorse una folla di persone. Prima di capire dovette leggere lo striscione che qualcuno aveva appeso tra due alberi: “Evviva Marisa, la nostra lattaia”.
Una festa? Per lei?
Inforcò gli occhiali e si guardò intorno stupefatta. C’erano proprio tutti, vecchi e nuovi. Persino Rino, il salumiere, che aveva chiuso quindici anni prima e Pasquale arrivato da Londra. Beddu meo!
Le batterono le mani e poi si levò una musica a gran volume. Si trovò tra le braccia di Gianni il calzolaio, poi la fece ballare il signor Bianchi, un vedovo settantacinquenne a cui aveva portato la spesa tante volte. Intorno a lei presero a muoversi tutti a passo di danza.
Marisa chiuse gli occhi e sorrise. E ballò con suo padre, tra le zolle rosse della sua terra, ragazzina quindicenne. Con il padre di suo figlio Pasquale, sulla spiaggia di Porto San Giovanni in una notte d’estate, brutto mascalzone che sei stato, ma quanto eri bello. Con l’Armando, stretta avvinghiata all’uomo della sua vita. Tu, solo tu.
Poi si riscosse perché era stato intonato un coro:
Fatti mandare dalla mamma/ A prendere il latte/ Devo dirti/ Qualche cosa/ Che riguarda noi due. Morandi, che mito!
Nel frattempo qualcuno prese per mano chi gli stava vicino, qualcun altro lo imitò e spontaneamente si formò un grande cerchio che cantava e ballava per tutta la piazza.
Tra i palazzi vecchi e nuovi, le bancarelle colorate del mercato di Piazzale Lagosta, il pennacchio di un grattacielo su in alto e il vecchio ponte e la ferrovia là in fondo.
Bellissimo racconto che ti lascia con gli occhi lucidi ma con tanta tenerezza e la gratitudine di aver conosciuto tante Marise indimenticabili e irripetibili. Brava Elena Zucchi, penna delicata e incisiva.
Bellissimo racconto che ti lascia con gli occhi lucidi ma con tanta tenerezza e la gratitudine di aver conosciuto tante Marise indimenticabili e irripetibili. Brava Elena Zucchi, penna delicata e incisiva.